Tony D’Amico, attuale direttore sportivo dell’Atalanta, ha ripercorso la sua storia nel mondo del calcio in un’intervista alla Gazzetta dello Sport, parlando sia degli inizi da calciatore che del suo percorso dirigenziale.
“Ero una mezzala con tanta corsa, ma sotto porta ero disastroso: sbagliavo anche da solo davanti al portiere”, ha raccontato con ironia. “Oggi mi rivedo un po’ in Guendouzi, ma i miei idoli erano Leo Junior e Paulo Sousa”. Il periodo più intenso della sua carriera da giocatore lo ha vissuto a Foggia: “Il primo anno venivo fischiato, il secondo, con Pecchia in panchina, tutto è cambiato. Giocavo meglio e sono diventato capitano, amato dalla tifoseria”.
Il passaggio al dietro le quinte è arrivato grazie a Filippo Fusco, ai tempi del Bologna: “Mi coinvolse chiedendomi pareri sui giovani, poi mi portò con sé a Verona. Quando si dimise nel 2018, mi disse di restare. Un anno dopo, Setti mi affidò il ruolo di direttore sportivo”.
Negli ultimi anni, si è parlato di un possibile approdo di D’Amico al Milan, ma lui chiarisce: “Ho letto tante voci, ma non mi sono mai sentito fuori dal progetto Atalanta”.
Sul colpo più riuscito e il rimpianto più grande è chiaro: “Il migliore sarà il prossimo, ma penso ad Amrabat, preso in prestito e poi venduto a 20 milioni, o a Zaccagni che a Verona è esploso. Il rimpianto? Scamacca: avrei dovuto insistere di più per prenderlo dal Sassuolo”.
Infine, parla delle difficoltà che un ds può incontrare, come nel caso Koopmeiners nel 2024 o Lookman nell’ultima estate: “Gestire certe situazioni è complicato. Devi restare lucido, anche se con quei ragazzi hai condiviso tanto. A volte, il lavoro ti impone di superare le emozioni”.
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