In un campionato che dopo tredici giornate vede sette squadre raccolte in appena cinque punti, l’incertezza regna sovrana e alimenta un fascino indiscutibile. Le sorprese non mancano, con realtà come Bologna e Como pronte a inserirsi nelle zone nobili della classifica. Eppure, se la suspence non difetta, il livello dello spettacolo in campo racconta tutt’altra storia.
Il confronto diventa impietoso quando si passa da un match d’intensità tipicamente inglese, come Chelsea–Arsenal, a una sfida di vertice nostrana come Roma–Napoli. Lo stesso discorso vale per il tanto atteso derby di Milano della settimana precedente: ritmo spezzato, poche soluzioni offensive, tanto agonismo e poca brillantezza.
Il calcio italiano storicamente non ha mai brillato per intensità né per la costanza nella ricerca di trame offensive. Alle dinamiche tattiche si aggiungono pressioni mediatiche enormi, atteggiamenti esasperati sugli spalti e in campo, una certa propensione all’“arte” del rotolamento e uno spezzettamento del gioco che rende difficile appassionarsi se non si parteggia per la squadra che la spunta con un tiro in porta. Da noi, contano i punti: per lo spettacolo, si dice, c’è il circo. Ma ridere non fa più ridere, perché il livello del gioco è crollato e non per caso.
Si è finiti in una sorta di monocultura tattica. Le squadre o pressano a uomo a tutto campo — come visto in Roma–Napoli — oppure si schiacciano in un blocco medio-basso, scivolando lateralmente come in una difesa da pallamano, chiudendo ogni spazio centrale e concedendo soltanto cross. Ovunque regna la difesa a tre, trasformata in linea a cinque quando si arretra: schemi che si specchiano inevitabilmente e che prevedono adattamenti minimi. La fase offensiva si riduce spesso a due idee: attirare l’avversario per poi colpirlo alle spalle con una verticalizzazione, oppure far girare palla per minuti interi in cerca di varchi che raramente esistono.
L’anno scorso l’unica vera eccezione era l’Inter di Inzaghi, capace di rompere schemi e marcature con rotazioni continue e cambi di gioco rapidi. Quest’anno, però, anche i nerazzurri si sono allineati a un calcio più diretto, fondato su aggressività e verticalità. Paradossalmente, il contributo più originale arriva oggi dal Milan, dove lo staff allegriano (nel senso di “volto al pragmatismo”, non legato ad Allegri) ha elaborato uscite palla intelligenti e mobili: Modric che si abbassa sulla linea dei difensori, Pavlovic e Tomori che avanzano da terzini atipici, Gabbia che crea superiorità. Così nasce anche l’azione, quasi simbolica, del cross decisivo di Tomori per Leao.
Ma la vera eccezione, quella che strappa un sorriso agli amanti del bel gioco, è il Como di Fabregas. Distante solo quattro punti dalla vetta, la squadra lombarda propone un calcio quasi estraneo alla tradizione italiana: tecnico, coraggioso, fluido. Difensori capaci di costruire, ali vere, un centrocampo che ruota e permette a talenti come Nico Paz di ricevere già orientati verso la porta, combinazioni strette alternate a improvvisi attacchi sugli esterni, sovrapposizioni interne dei terzini e una continua ricerca dell’occupazione dinamica degli spazi.